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Unione bancaria, battaglia italiana giusta ma difficile

La battaglia di Renzi sull’Unione bancaria per ottenere il fondo europeo di garanzia dei depositi e impedire interventi sui titoli di Stato nel portafoglio delle banche è giusta ma difficile da far comprendere alla Germania perché è evidente che una banca con titoli tedeschi in pancia è meno rischiosa di una banca che detiene titoli greci – Meglio capire le ragioni degli altri che demonizzarli.

Unione bancaria, battaglia italiana giusta ma difficile

Come ha chiarito Renzi in Parlamento, nel negoziato in corso sull’unione bancaria, l’Italia chiede che si proceda alla costruzione di un fondo europeo per la garanzia dei depositi, ma si oppone a che venga messo in discussione, attraverso vincoli quantitativi o regole sull’assorbimento di capitale, il ruolo dei titoli sovrani nel portafoglio delle banche. Si tratta di una posizione che dobbiamo difendere con le unghie e con i denti dal momento che, senza il sostegno delle banche, potrebbero insorgere difficoltà notevoli nel collocamento dei titoli pubblici in diversi paesi. Ma è una posizione che si giustifica in una situazione di particolare fragilità sia di alcuni paesi sia dell’Eurozona nel suo insieme.

A regime, in una unione bancaria effettiva è del tutto naturale che i titoli degli Stati più rischiosi assorbano più capitale degli altri: se ciò non avvenisse le autorità non proteggerebbero adeguatamente i risparmiatori.

È evidente che, a parità di altre condizioni, una banca con titoli tedeschi in portafoglio è meno rischiosa di una banca con titoli greci. Le autorità preposte alla vigilanza non possono far finta che le due banche siano uguali, e se lo facessero senza avere alle spalle una solida protezione normativa potrebbero anche essere portate in giudizio dai risparmiatori danneggiati nel caso ad esempio di un eventuale nuova ristrutturazione del debito greco. Un po’ come se una circolare di una qualche autorità italiana avesse dato ai risparmiatori la (falsa) informazione che le obbligazioni bancarie subordinate erano prive di rischio: oggi ovviamente quell’autorità dovrebbe rendere conto di una informazione tanto ingannevole.

Lo stesso succederebbe se le autorità di vigilanza europee decidessero di loro iniziativa di non tenere conto della diversa rischiosità per i risparmiatori di banche esposte a rischi sovrani diversi. Il punto è che in qualche misura la richiesta italiana sembra implicare che la vigilanza europea non chieda alle banche di coprire, con opportuni accantonamenti, i rischi che esse si assumono con i soldi dei risparmiatori.

La questione diventa ancora più delicata se si chiede che tutti i Paesi contribuiscano ad un unico fondo europeo di garanzia e che lo facciano in eguale misura, ossia senza tenere conto della diversa rischiosità delle singole banche, e senza che le diversità nei rischi degli attivi siano state eliminate o almeno attenuate dai coefficienti di patrimonializzazione. Negli Stati Uniti, i premi assicurativi pagati dalle banche che aderiscono al sistema di assicurazione dei depositi (FDIC) tengono conto della rischiosità delle singole banche, la quale a sua volta dipende anche della qualità dei titoli in portafoglio, inclusi i titoli degli Stati. Ad esempio, secondo Standard&Poor’s, lo stato dell’Indiana ha la tripla A mentre l’Illinois si ferma ad A-.

Portorico è fallito e sta un gradino sotto l’Argentina. Non dobbiamo dunque stupirci che i tedeschi si oppongano alle nostre richieste: non ce l’hanno con noi per partito preso, come sembrano pensare alcuni. Hanno qualche buona ragione e, soprattutto, sono preoccupati che queste richieste comportino un potenziale trasferimento, non trascurabile in dimensioni, di risorse dai paesi “core” ai paesi della cosiddetta “periferia”. La battaglia a Bruxelles è dunque molto difficile, ma va vinta. E per vincerla è utile capire le ragioni degli altri; è invece controproducente demonizzarli, offenderli o accusarli di mire egemoniche che, grazie al cielo, non hanno.

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