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Crescita: servono imprenditori amanti del rischio, non “elicotteri”

Solo il rilancio della produttività attraverso investimenti privati nell’industria può realmente fare crescere l’economia italiana – Gli elicotteri che dispensano fiumi di moneta e il ricorso agli investimenti pubblici non sono ricette plausibili.

Crescita: servono imprenditori amanti del rischio, non “elicotteri”

Nel 1982 Nikolas Kaldor, uno dei più brillanti allievi di Keynes, scrisse un saggio con un titolo “Il flagello del monetarismo” che oggi richiama, per analogia, il flagello del fiscal compat, ogni volta che questo viene interpretato così come farebbe il contabile del bottegaio di quartiere che non sopporta il bottegaio dirimpettaio. Non si dimentichi infatti che sottostante ai parametri di Maastricht covava il desiderio di alcuni paesi di escludere l’Italia dirimpettaia dalla moneta unica e di favorire la sua deindustrializzazione a favore delle industrie del centro Europa.

Per fortuna dell’Italia e dell’Europa – di cui ha un tremendo bisogno il Regno Unito, ma non viceversa – Mario Draghi sta portando all’ultimo posto in graduatoria il problema dei debiti pubblici. Con i tassi di interesse reali mantenuti nel medio periodo prossimi allo zero, così come la BCE intende fare, ed un tasso di crescita reale di medio periodo del Pil di poco superiore agli stessi, il rapporto Pil/debito pubblico tende prima a stabilizzarsi poi a decrescere, così come insegna un vecchio e famoso teorema dimenticato dai nuovi flagellatori.

Pertanto, nel caso dell’Italia, per raggiungere siffatto incremento reale della crescita del Pil non occorrono elicotteri che spargano moneta e neppure nuovi flussi di investimenti pubblici che comprometterebbero il rapporto debito/Pil, ma un aumento della produttività del sistema economico. Si tratta di un compito che oggi, nel contesto di una economia di mercato in cui sono scomparsi gli investimenti delle imprese pubbliche privatizzate, spetta prioritariamente alle imprese private del settore industriale, che, cogliendo l’opportunità del bassissimo costo del denaro dovuto alla BCE, sono chiamate ad arrestare la caduta – che perdura da troppi anni –  del peso dei loro investimenti sul totale degli investimenti delle imprese non finanziari.

Infatti, un semplice indicatore (dati Istat) costituito dalla composizione degli investimenti delle imprese non finanziarie distinti tra industria in senso stretto e settore dei servizi (esclusi quelli finanziari) documenta il sorpasso degli investimenti nei settori con minore produttività potenziale (commercio, servizi non finanziari e costruzioni) rispetto agli investimenti nell’industria in senso stretto dotati di maggiore potenziale produttività anche perché sottoposti agli attriti della competizione internazionale. Tra i primi anni settanta e i corrispondenti anni duemila, gli investimenti nell’industria in senso stretto sono scesi da oltre il 60 % a meno del 50%; gli altri sono cresciuti dal 37 % del totale al 52-53 %. È un segnale della regressione dell’industria italiana nei confronti degli altri settori protetti che darebbe forza ai flagellatori del fiscal compact. Non si deve per altro coltivare l’illusione che l’aumento di produttività venga dai settori protetti alla concorrenza internazionale che già godono di altre rendite di posizione. La sfida è trasformare la produttività potenziale in produttività reale.

Purtroppo concorre alla regressione industriale il comportamento dell’imprenditoria italiana tenuto ai tempi delle privatizzazioni che documentala propensione del capitalismo familistico italiano a racchiudersi entro i settori potetti dalla concorrenza internazionale. Nel caso degli acquirenti italiani delle imprese pubbliche, prevalse quello finalizzato a diversificare gli investimenti del gruppo (Benetton, Caltagirone, Orlandi) nei settori diversi da quello manifatturiero, sia quello che mirava a realizzare le plusvalenze dalla successiva cessione (fondi chiusi, Rocca per la SIV e Riva per la Seat). Non sempre furono operazioni di successo come attesta il caso ILVA e quello delle acciaierie di Piombino guidati da gruppi famigliari inadatti allo scopo.

Viceversa, i gruppi industriali stranieri preferirono restare nel settore di cui avevano esperienza al fine di accrescere la loro dimensione e presenza internazionale in alcuno settori strategici ad alta tecnologia. Ad esempio il gruppo Krupp che ha acquisito AST-Acciaiai Speciali di Terni; il gruppo ABB-Asea Brown Boveri che ha integrato Ebpa (leader nei sistemi di controllo e automazione di processo nel settore dell’energia); oppure la Genral Electric Company con l’acquisto della Nuova Pignone. Dunque necessitano nuovi imprenditori che amino il rischio di impresa anche sui mercati internazionali.

È però vero che concorrono a siffatta regressione dell’industria la sua patologica dipendenza dal credito bancario (quasi sempre agevolato) erogato con modalità assai antiche nel rispetto del pernicioso “legame con il territorio”, insieme alla correlata carenza di investimenti e nei processi produttivi più innovativi e competitivi, che richiedono anche il ricorso al capitale di rischio da raccogliere sul mercato allargando la compagine societaria familistica. Chiusura familistica degli assetti proprietari che oggi confina molte imprese nel “nanismo banca dipendente”” e nei settori tradizionali a scarsa produttività e con modesto tasso di investimenti in ricerca e sviluppo. Non a caso, venuta meno la possibilità di ricorrere alla politica incentivante delle svalutazioni competitive che consentiva la guerra di prezzi sui mercati internazionali, è rimasta la propensione a non investire in ricerca e sviluppo delle imprese italiane tutt’oggi tra le più basse dell’UE: lo 0,6 per cento del Pil in Italia, contro circa l’1,2 nella media della UE-28, e l’1,6 della media OCSE.

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